Due alunni del Lamaro Pozzani impegnati attualmente nella ricerca sulle malattie tumorali al Brigham and Women’s Hospital di Boston, Pierpaolo Peruzzi e Debora Mazzetti, hanno recentemente pubblicato un articolo sull’importante rivista Science Translational Medicine and Cancer Discovery. Un traguardo che riguarda non uno, ma ben due ex studenti del Collegio, testimoni di un sodalizio professionale che unisce
diverse generazioni: lei, laureatasi in “Neurobiology and Neuroscience” all’ Università degli Studi di Roma “La Sapienza” nel 2021, ora nel laboratorio del Dr. Peruzzi, classe 1979, Assistant Professor presso la facoltà di Neurosurgery della Harvard Medical School.
Quali restano oggi i problemi ancora aperti nella comprensione delle malattie tumorali? In che modo il vostro studio si inserisce nel panorama della ricerca in questo settore?
[PIERPAOLO] Negli ultimi 20 anni, a partire dal successo dell’“Human Genome Project”, che ha consentito la mappatura completa del DNA umano e delle sue mutazioni nei tumori, sono stati fatti passi da gigante nella ricerca delle cause di queste malattie. Addirittura, il glioblastoma, il più aggressivo dei tumori del cervello, e oggetto del mio interesse clinico e scientifico, è stato proprio il primo ad essere studiato con queste
modalità. Il paradosso è che alla fine non abbiamo ancora capito bene cosa fare con tutte le informazioni che abbiamo, e i pazienti, purtroppo, non ne hanno beneficiato. Trovare una mutazione in un tumore non vuol dire automaticamente che quel tumore risponderà ad un farmaco specifico per quella mutazione. In altre parole, il sistema attuale è completamente inferenziale, un po’ come le previsioni del tempo!
Il nostro studio si inserisce proprio in questo contesto, per trovare una soluzione al problema. Con la nostra strategia testiamo diversi farmaci direttamente nel tumore ancora nel suo contesto naturale, il cervello del paziente, non in una piastra in laboratorio o nel cervello di un topo. In base alle diverse risposte che osserviamo, possiamo stabilire quale sia la chemioterapia migliore da somministrare a quel particolare paziente. Praticamente medicina personalizzata allo stato puro. Una pubblicazione firmata non da uno, ma da ben due ex alunni del Lamaro Pozzani.
Possiamo vederla come testimonianza di un network professionale che coinvolge generazioni diverse, al di là del periodo trascorso in Collegio?
[PIERPAOLO] Assolutamente sì e ne siamo entrambi orgogliosi. Dal mio punto di vista, essendo a conoscenza dei requisiti che uno studente deve avere per essere ammesso al Collegio, scegliere per me è come mettere la mano dentro a una scatola di cioccolatini: non so in partenza se ne prenderò uno al latte o al fondente, e, in realtà, non mi importa, perché so che sarà comunque eccellente. Poi c’è anche l’aspetto puramente di appartenenza, e il fatto che mi appaga l’idea di contribuire all’esperienza formativa offerta dal Collegio, proprio come io ne ho usufruito a mio tempo.
[DEBORA] Per me venire qui era il sogno di una vita, che ha iniziato ad essere reale quando nel 2016 sono entrata in Collegio. Ricordo come fosse ieri che una ragazza, che era stata al laboratorio del Dr Peruzzi, me ne parlò come di un ex collegiale che, ad Harvard, faceva anche ricerca sul cervello. Esattamente quello che sognavo di fare io! Il mio obiettivo di quegli anni era ben chiaro: dimostrare di essere all’altezza del posto
dove volevo andare. Quando il Dr. Peruzzi ha accettato la mia richiesta non mi sembrava vero. Nonostante un po’ di ritardo, dovuto al Covid e alla chiusura delle frontiere, sono riuscita ad arrivare a Boston con le tasche piene di sogni. Oggi posso dire, dopo un anno, che mi sento al posto giusto: “We make a great team Boss!”.
Vivere, lavorare e studiare negli Stati Uniti, un’esperienza professionale che considerate positiva? Quali possono essere i limiti che avete incontrato?
[PIERPAOLO] Io appartengo a quella generazione post boomers per cui gli USA hanno sempre rappresentato una sorta di “Sacro Graal” professionale. Quindi sicuramente ho molti bias nella mia risposta a questa domanda e faccio la premessa che anche questo mondo ha i suoi problemi. L’altra premessa importante è che io non ho pregresse esperienze lavorative in Italia, quindi mi risulta impossibile fare paragoni. Devo però dire che la cosa che ho apprezzato di più è che questa realtà mi ha dato la possibilità di portarmi dietro la mia personalità e le mie idee, e mi giudica per i risultati e niente altro. Una società forse con meno sfumature rispetto a quella italiana, ma dove ancora c’è un concetto vivo di “frontiera” e di pionierismo, dove nessuno ti regala niente, ma tutti hanno la possibilità di tentare la loro strada. Quando ho proposto il mio studio, non pochi colleghi mi hanno detto che era un’idea “un po’ ardita”, ma di certo non si sono tirati indietro per collaborare. Per quanto riguarda specificamente la mia professione, questa figura del neurochirurgo-scienziato, che passa metà del suo tempo in sala operatoria e il resto in laboratorio è un’invenzione tutta americana, e a me mi (licenza toscana) calza a pennello.