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Cavina e il collegio universitario come abbazia laica

29.09.2022

Nella vita di ciascuno di noi sono molti i soggetti che influiscono sulla nostra formazione: i genitori, gli insegnanti, gli educatori, i sacerdoti ecc. Nel mio caso annovero tra costoro Giovanni Cavina (1924-2009). Era il direttore del collegio universitario romano “Lamaro-Pozzani” della Federazione nazionale Cavalieri del lavoro, di cui sono stato alunno dal 1989 al 1993. Frequentare l’Università nella capitale, per me che provenivo da una città della provincia piemontese, fu un’esperienza entusiasmante, che potei compiere grazie alla borsa di studio assegnatami (condizione essenziale per entrare in collegio). Il concorso per ottenerla si basava su molteplici prove disciplinari e attitudinali: una selezione molto articolata, alla quale, dopo la laurea, ho collaborato a mia volta per svariati anni in veste di commissario. Arrivavano raccomandazioni, certo, anche perché la posta in gioco era succosa: vitto e alloggio (in camera singola con bagno, allora un autentico lusso per una residenza universitaria) per l’intera durata del corso di laurea prescelto (salvo riportare, anno dopo anno, un buon profitto negli esami).

Ma il direttore Cavina – e dopo di lui il suo successore, il professor Stefano Semplici – si facevano un punto d’onore di ignorarle. O, meglio, di prescinderne. Ho imparato da Cavina, in tal senso, un savoir-faire da navigato uomo di mondo. Al termine della selezione, lui stesso ricontattava le importanti personalità che si erano spese per un certo candidato: se questi rientrava tra i selezionati, si pregiava di comunicarglielo, ma precisando che il giovane ce l’aveva fatta con le sue sole forze; se ciò non era avvenuto, gli esprimeva il proprio rammarico, spiegando allo stesso modo che la graduatoria si basava su punteggi oggettivi. A 19 anni mi trovai così a vivere in comunità con altri 70 ragazzi provenienti da tutte le regioni italiane. Fu una scuola di formazione, sul piano umano e relazionale, altrettanto importante di quella rappresentata dalle lezioni universitarie sotto il profilo culturale. Non sempre tutto era facile.

Vivere insieme ad altre persone comporta limiti e sacrifici. Lo sanno bene i religiosi, che ripetono con il salmista «quanto è buono e quanto è soave, che i fratelli vivano insieme!». Ma che, con apprezzabile autoironia, hanno anche coniato una massima che recita «communitas maxima poenitentia»… Il paragone con la comunità religiosa ha una sua ragion d’essere, perché Giovanni Cavina soleva ripetere che il collegio era una sorta di “abbazia laica”. L’abbazia laica. Giovanni Cavina educatore visionario si intitola un volume ora curato da Angelo Ciancarella per Campisano editore (pagine 272, euro 30,00). Il libro raccoglie un’antologia degli editoriali che Cavina andò pubblicando tra il 1967 e il 1995 sulla rivista Panorama per i giovani, mensile dedicato all’orientamento dei ragazzi delle scuole superiori.

«Ammirazione, riconoscenza, rispetto» sono i sentimenti – come scrive in una nota introduttiva il presidente dell’associazione Alumni del collegio, Giorgio Ricci Maccarini – che gli ex allievi di questa istituzione (dal 2019 inserita dal Miur tra i collegi universitari di merito) provano nei confronti di colui che ne fu la prima autorevole guida. Cavina fu infatti, di quel progetto, l’ideatore e a lungo l’animatore. Aveva concepito il collegio, avviato dal 1971, come un “laboratorio culturale”, in cui i giovani, oltre ai corsi universitari, seguissero lezioni interne di economia, lingue e informatica. Tre discipline niente affatto casuali: colpisce, a distanza di oltre mezzo secolo, come Cavina avesse intuito la loro crescente importanza nel mondo di domani. Lo si vede molto bene anche ripercorrendo i suoi interventi giornalistici, qui raggruppati in 7 sezioni. Le prime 6 sono orientamento, politica, cultura, valori e società, Europa, ricerca. La settima è “spiritualità”. A tutto quanto realizzato da Cavina nella sua vita non era estranea l’ispirazione cristiana, mai ostentata ma quotidianamente vissuta.

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Articolo pubblicato il 28 Settembre da Avvenire