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Liberalismo sociale: una ricetta per il ventunesimo secolo. Incontro con Domenico Melidoro

Incontri serali

28.02.2020

di Andrea Cesari

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, in quello che avrebbe dovuto essere il suo momento trionfale, il liberalismo, consumato dalla hybris e dalle contraddizioni interne, ha imboccato il viale di un tramonto inequivocabile.

L’Europa e l’America sono oggi alle prese con una ribellione popolare contro le élite liberali, viste come egoiste e incapaci di risolvere i problemi delle persone comuni. Nel frattempo la Cina, destinata a diventare presto la più grande economia del pianeta, ha mostrato che strutture politiche diverse dalla socialdemocrazia possono non solo perdurare, ma anche prosperare. Ha dunque ragione Vladimir Putin, nel bollare il liberalismo occidentale come obsoleto?

Non è di questa opinione il professor Domenico Melidoro, che mercoledì 26 febbraio ha incontrato gli studenti del Lamaro Pozzani per presentare il suo ultimo lavoro, “Dealing with diversity. A study in contemporary liberalism” (Oxford University Press).

Frutto di una genesi travagliata durata oltre tre lustri, il libro si presenta, già nelle intenzioni dell’autore, con una duplice chiave di lettura: da un lato quella manualistica, costituendo un valido testo di riferimento per approcciarsi allo stato dell’arte del dibattito sulla complessa relazione tra liberalismo di sinistra e l’organismo statale, dall’altro quella di manifesto per un nuovo liberalismo per il ventunesimo secolo, inteso come framework ideologico all’interno del quale modi diversi di vita possano coesistere.

Riprendendo la metafora dell’Arcipelago liberale di Kukathas e ereditandone l’assunto per cui una teoria del liberalismo è da concepire come teoria dei limiti del potere, pur se accomunato al saggista di origini malesi dallo stesso obiettivo dichiarato – la costruzione di un modello teorico di società in cui, in nome del principio della tolleranza dell’intolleranza, possano coesistere gruppi liberali e illiberali senza necessariamente essere sintonici – il nostro autore giunge ad una conclusione che presenta tuttavia una fondamentale differenza di fondo.

Se l’ australiano arrivava infatti a delineare una società arcipelago all’interno della quale i vari gruppi-isole potessero coesistere anche senza l’esistenza di un terreno di incontro fra di essi, il professor Melidoro postula invece la necessità di tale spazio, a suo giudizio conditio sine qua non per la formazione di un’identità collettiva e di conseguenza per il passaggio da agglomerato di persone a società stricto sensu.

Al fine di garantire la pace sociale è proprio in tale spazio, rappresentato metaforicamente dalle acque comuni che scorrono tra le varie isole, e solo all’interno di quest’ultimo che – argomenta l’autore – deve svilupparsi ed operare la macchina statale.

Una volta determinata la forma di tale costrutto teorico, tuttavia, resta aperta una questione di fondamentale rilevanza, quella del definire i confini di tale spazio comune, operazione che, come affrontato nella seconda parte del testo, risulta non essere certo scevra di problematiche.

Se infatti si potrebbe auspicare, come nella proposta di Kukathas, uno Stato ridotto ai minimi termini, al fine di rimpicciolire il nucleo identitario e culturale che deve essere condiviso dai suoi cittadini per sentirsi tali e limitare conseguentemente le possibilità di conflitto sociale, facendo ciò si ignorebbero completamente le esternalità negative imposte da un sistema sociale dal taglio fortemente maggioritario alle varie minoranze.

Per supplire a tale fenomeno, per tramite del quale l’esser parte della maggioranza diviene condizione essenziale per realizzarsi appieno come cittadino, l’autore, tenendo ben presente la lezione di Martha Minow e del suo celeberrimo “Making all the difference”, suggerisce di trasformare il problema individuale in problema sociale, al fine di “allargare la base maggioritaria” e costruire così una pace sociale costruita su valori effettivamente minimi e necessari per tutti, senza avventurarsi però in ulteriori sviluppi in tal senso che rimanda ad un eventuale lavoro successivo.

Sulla scorta di questa ricetta, riuscirà quel liberalismo che ci ha accompagnato per quattro secoli a rialzarsi, o sarà condannato ad essere rilegato alle pagine dei libri di storia?

Ai posteri l’ardua sentenza, o meglio, al prossimo libro del professor Melidoro.