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Giovanni Maria Flick, Il giudice e l’impresa: la risposta delle istituzioni alle presenze nocive nel mondo imprenditoriale

03.06.2025

di Alessandro Tegas

In questo secolo, si continua ad assistere a una difficile sfida per il legislatore, che, guidato dai moniti della Carta costituzionale, si ritrova a dover conciliare esigenze e minacce del mondo imprenditoriale con le norme che giustizia e stato sociale richiedono. Tuttavia, l’opera interpretativa della giurisprudenza, che come sempre anticipa e richiama il legislatore, e gli sforzi dei magistrati continuano a navigare in uno scenario di appalti corrotti, mafia e sfruttamento. Il nuovo libro del professor Giovanni Maria Flick, già ministro della giustizia e presidente della Corte Costituzionale, ruota attorno a questi temi di strettissima attualità: il 26 maggio l’incontro con gli studenti del “Lamaro Pozzani” è stato l’occasione per presentare la sua nuova opera, Il giudice e l’impresa.

Dopo una breve introduzione del professor Sebastiano Maffettone, che ha ricordato gli importanti incarichi ricoperti da Flick e l’immagine di altissimo spessore costruita negli anni, il professore ha subito affrontato il nodo centrale del libro: il conflitto tra giudice, chiamato ad applicare il diritto penale dell’economia, e imprenditore, che invece ricerca spazi di libertà e autonomia decisionale. Un contrasto reso ancora più acceso dalla crisi economica, politica e istituzionale degli ultimi decenni, che ha determinato un progressivo decadimento della qualità del diritto penale. Quest’ultimo entra sempre più in collisione con il profitto d’impresa. Il conflitto tra legge e profitto, tra esigenze correttive e iniziativa economica, mette in difficoltà legislatori spesso inerti, lasciando magistrati e regolatori senza strumenti adeguati.

A partire dagli anni ’80 prende così forma un archetipo di diritto penale dell’economia, o meglio una giurisprudenza “creativa” penale. Se fino a quel momento si era convinti che bastasse affidarsi alla legislazione civile e commerciale, si ritenne che gli strumenti civilistici non fossero più sufficienti per affrontare la crescente complessità del mondo economico. Non solo, cambiò anche la visione del rapporto tra persona e economia: non si parlava più soltanto di valore sociale dell’impresa, ma anche della sua pericolosità sociale. Un elemento, in seno a questa relazione persona-economia, reso oggi centrale dalla rivoluzione digitale, che sta trasformando radicalmente il mercato: le macchine, ammonisce Flick, tentano di prendere il sopravvento. Emblematico il caso dell’intelligenza artificiale, che consente speculazioni in Borsa sempre più aggressive.

In passato, il diritto penale era visto dalla dottrina come l’extrema ratio, e il diritto dell’economia come una strada da scongiurare, portando all’esasperazione il detto per cui “un buon diritto penale dell’economia deve fare economia di diritto penale”. Emblematico è però il monito dell’art. 41 della Costituzione che, da un lato garantisce la libera iniziativa privata, e dall’altro la vincola al rispetto di un novero sempre più ampio di valori sociali e, a partire dalla riforma costituzionale del 2022, anche ambientali. Così, negli anni Duemila è stato compiuto un secondo passo fondamentale, con l’elaborazione di una vera e propria legislazione penale d’impresa, incentrata su aspetti manageriali come la reputazione aziendale. Nel frattempo, altri Paesi avevano già messo in luce i legami tra criminalità organizzata e mondo imprenditoriale. Fanno così la loro comparsa i reati di falso in bilancio, market abuse e caporalato. L’obiettivo è chiaro: tutelare il risparmio, sia pubblico che privato, e proteggere la persona nelle sue varie vesti – consumatore, lavoratore, risparmiatore. Emergono, peraltro, casi di sfruttamento minorile e lavoratori irregolari nella filiera dei prodotti di maggior successo.

In chiusura, Flick ha ricordato che già negli anni ’90 si erano manifestati i fenomeni delle mafie nel Mezzogiorno e della corruzione imprenditoriale al Nord; in seguito, si è verificata una vera e propria commistione: il “triangolo dell’illegalità” (Mafiacity-Nerolandia-Tangentopoli). Contestualmente, si ebbe lo straordinario operato di Francesco Saverio Borrelli e di Antonio Di Pietro. Di quest’ultimo ha chiara fama l’approccio investigativo, imperniato sulla distinzione degli imputati, attraverso il criterio della quantità di informazioni rilasciate allo stesso pubblico ministero in sede di interrogatorio: le condizioni detentive sarebbero state tanto migliori quanto più gli interrogati avessero “parlato”. Un metodo tanto controverso quanto efficace. Storiche anche le parole di Sciascia, che parlava della “linea della palma”, spintasi sempre più a Nord, fino all’ondata di suicidi seguita a Mani Pulite e alle stragi di Capaci e via D’Amelio. Il professore ha infine concluso il suo intervento ammonendo sul ruolo cruciale che da sempre rivestono gli appalti e i subappalti, spesso usati come strumento per aggirare regole e controlli.