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Incontri tra culture, visita alla Moschea di Roma

30.01.2023

di Vittoria Resta

Che cosa spettasse ai collegiali che, la mattina del 28 gennaio, si sono mossi alla volta della Grande Moschea di Roma, era fondamentalmente scritto nel cielo.

Un cielo obnubilato, carico di pioggia eppure difficile da decifrare; un cielo che presagisce qualcosa di imponente e solenne, senza suggerire esattamente cosa. Quello stesso cielo che per un momento pareva portare torrenziali piogge, non aveva invece fatto altro che assorbire i rumori, come per aiutare a raccoglierci nel silenzio prima ancora di varcare le sacre soglie.

Nel giungere a queste ultime, abbiamo avuto modo di attraversare, grazie alla coinvolgente narrazione dell’Imam Nader Akkad, nostro ospite e guida, l’intera storia e architettura della moschea: dalla posa della prima pietra nel lontano 1984, alla perfetta simbologia islamica portata in vita dall’architetto Paolo Portoghesi. Egli, pur mantenendo vivo lo spirito della magnifica Roma su cui si erge, è stato in grado di rievocare il celebre versetto coranico Allah è la luce, integrando nella natura circostante ogni colonna e parete della Moschea, dal minareto, rivolto al contempo a Gerusalemme e La Mecca, alla grande sala della preghiera, una allegorica “foresta” che abbiamo poi avuto modo di apprezzare dall’interno.

L’imperativo occidentale cui siamo tanto avvezzi di rapidità e potenza resta dietro la coppia di palme che ci ha accolti all’ingresso e ci lascia respirare a pieni polmoni in un ambiente che ci ricorda la nostra più terrestre e fragile origine, il giardino dell’Eden. Nessuna evocazione, nessuna iconografia, nessun piedistallo: la nostra missione non è valicare il tetto che ci protegge ma ringraziarlo nel cercare il contatto con la terra che in principio ci ha plasmato.

Quell’idea di inclusione e apertura, flagellata da notizie distorte e pregiudizio, viene rimessa così in luce attraverso elementi semplici ma di immenso impatto evocativo: menziono, fra tutti, la decisione di circondare la Moschea con un cancello quasi invisibile, al fine di creare continuità, con ingegnosi stratagemmi di luci, fra l’esterno e l’interno.

È proprio su questa comune visione di integrazione fra le parti che si incentreranno gli interventi degli altri preziosi ospiti che ci hanno accolto: il prefetto Giovanna Maria Iurato, da cui abbiamo in primis ricevuto l’invito e l’entusiasmo per l’iniziativa, e il dottor Adbellah Redouane, attuale Segretario Generale del Centro Islamico Culturale d’Italia, che subito dopo abbiamo avuto modo di ascoltare.

Pur seguendo due punti di vista distinti, temprati l’uno da una rigorosa giurisprudenza, l’altro dall’intimità di una dottrina vissuta da fedele, la bandiera comune che sventola fra le parti ha ricamato il prefisso “in” sul centro, “dentro”. Sono le parole “integrazione”, “inclusione”, “insieme”, “intesa” a riecheggiare per la sala: è infatti insieme, nel dialogo, “che si raggiungono traguardi di democrazia”, per riprendere le parole del prefetto. È proprio nell’interlocuzione delle parti che si è raggiunto l’obiettivo di far riconoscere, allo stato italiano, la moschea come un luogo di culto, prima ancora che come un’istituzione culturale.

Assistiamo alle genuine parole del professore Sebastiano Maffettone e al diplomatico saluto dell’onorevole Maria Elena Boschi che, di passaggio per la moschea, ha speso parole di speranza e incoraggiamento per noi ragazzi, con uno sprone a essere testimoni autentici dei valori dell’accoglienza e del rispetto. Il clima è disteso, l’aria fertile di domande è ora permeata da un peso di conoscenze in fermento, quel cielo prima gravido della curiosità per la dimora del “vicino” così poco conosciuto, ora viene appena intravisto dalle finestre dell’autobus che ci riporta a casa.

Per un momento pare che il tempo si sia interrotto, si sospira pensando alla straordinaria fortuna che incontriamo in luoghi come questo, dove l’individuo lascia posto a dimensioni più ampie. “Una cultura c’è se ce ne sono almeno due”, ripeteva Serge Latouche, e noi, nel nostro prezioso e modesto ruolo, non possiamo che assicurarci che quel cancello “quasi invisibile” rimanga aperto.