Menu

Imprese familiari: principi, criteri, continuità e crescita. La lectio di Maurizio Sella

10.03.2021

di Lorenzo Farrugio

“Un terzo della paga in vino”. No, non è l’ultima trovata della Alphabet, già pioniera della crescente tendenza di pagare i dipendenti in servizi in cambio del loro tempo, né un tentativo reazionario di arginare le fughe in avanti della Tesla di accettare i bitcoin come unità di scambio. Purtroppo per i baccanti di più stretta osservanza non si tratta nemmeno di una delle tante modalità di pagamento che sorgono e fioriscono per eludere le imposte sul reddito. Per questo vanno decisamente meglio i dogecoin e le stock option.

Ricorda un po’ quello che facevano gli antichi romani col salario dei soldati ma è invece il frutto dell’esigenza dei lavoratori dei paesini di montagna dell’era premoderna di procurarsi, senza doversi imbarcare in lunghe transumanze, i principali beni di consumo dell’epoca.

E così la famiglia Sella, che aveva il suo core business nel filato e che pur di attrezzarsi di macchinari all’avanguardia se li era fatti portare a dorso di mulo attraverso le Alpi, iniziò a ramificarsi anche nella viticoltura e ad acquisire risaie. Ad esordire così è il presidente della Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro Maurizio Sella nella sua prolusione pronunciata il 3 marzo 2021 in occasione dell’inaugurazione dell’A.A. 2020 -21 del Collegio di merito “Lamaro – Pozzani”.

Poi prosegue: “Dai acqua”. La platea rimane un po’ interdetta forse pensando che il presidente, collegato da remoto, fosse oberato da qualche operazione culinaria. Subito però spiega: è un modo di dire delle sue parti, equivale ad accendere la luce, un’atavica reminiscenza di quando i Sella scesero a valle dalle loro culle montane e presero a dotarsi di mulini ad acqua per azionare i loro macchinari industriali.

Ma come si fa a portare avanti una dinastia imprenditoriale che dura da più di 13 generazioni? Prova a spiegarcelo con un doppio octalogo che compendi i criteri e i valori di una impresa di famiglia di successo. E per farlo parte non da un’azienda qualunque, ma da un gruppo che si perpetua sin dall’Ottocento, quello che porta il suo cognome.

Emerge con forza l’orgoglio di chi ha scelto da secoli di restituire al territorio quanto si è preso, di fare dell’istruzione e dell’R&D il volano dello sviluppo economico, di puntare sui propri dipendenti prima che parole come welfare aziendale, open innovation e corporate social responsability fossero anche solo coniate.

Ma per un’azienda di famiglia è essenziale che ci sia una famiglia. Quindi prima l’impresa, ma non troppo. E se la discordia è la rovina dei popoli, la disunione tra consanguinei è “l’anticamera dell’azienda in vendita”. Ma a dispetto di quanti immaginino le genealogie dei capitani di impresa come delle batterie industriali pronte a sfornare imprenditori dalla culla, l’ex numero 1 dell’ABI ci svela che solo il 9% dei Sella ha deciso di entrare in azienda.

E non certo perché se ne sentiva costretto né in vista di una facile scalata. La schiavitù tende a generare disaffezione, mentre non c’è peggior danno di un incompetente in un posto di comando. Così i Sella lasciano liberi i propri rampolli di seguire le orme degli avi, ma chi si incammina lo fa a proprio rischio e pericolo, senza nessun lasciapassare nel suo percorso aziendale che non siano le sue competenze. Ecco ad esempio come evitare di estinguersi nelle rapide del passaggio di consegne alla terza generazione, statisticamente il più delicato.

Ma c’è un lato più recondito che vale la pena cogliere in filigrana dalle parole del presidente. Non di rado genitori di successo diventano macigni psicologici capaci di schiacciare l’autostima dei loro pargoli, riducendoli talvolta a pura propaggine dei propri disegni e trascurando i loro bisogni affettivi a favore delle incombenze lavorative. Ma dal rammarico del presidente di non dedicarsi abbastanza ai nipoti e dall’affettuoso cruccio, che traspare, di promuovere le più disparate inclinazioni dei suoi discendenti si intuisce bene come questi demoni non abbiano cittadinanza nel suo casato. Prende allora in prestito le parole di Achille Maramotti quando consiglia di votare alla famiglia almeno il 25% del proprio tempo. “Non prima però dei i 45 anni”, aggiunge con precisione sartoriale.

Tutto questo però non basterebbe se l’azienda non fosse impostata come una seconda casa, stavolta di vetro, per la famiglia e gli imprenditori. Qui emerge la convinzione che pagare le tasse fino all’ultimo centesimo non abbia una valenza solo etica ma convenga, per sottrarsi al ricatto dei dipendenti e allo scacco delle autorità vigilanti. Le società che le pagano e che non perdono tempo nell’industriarsi in stratagemmi per evaderle vanno meglio, perché hanno più tempo per dedicarsi alla loro crescita. È questo l’understatement del suo ragionamento. Ma vi è anche un vantaggio in più: consente di non disperdere il capitale umano di quei giovani eredi, guadagnati alla causa di famiglia, che in genere nutrono una forte tensione morale e sono inflessibili sul valore dell’onestà.

Dalla fermezza della sua voce si scorgono la consapevolezza di chi sente tutta la responsabilità di essere traduttori e non traditori di un filo rosso che scavalca i secoli e la serenità di chi sa che proprio mentre si attende al lavoro sta nascendo una nuova linfa che un giorno si ritroverà al suo posto.

Quello dell’imprenditore non è però un mestiere per i dubbiosi né per i rapidi. Richiede confronto coi dipendenti, nella consapevolezza che “dirigere voglia dire soprattutto elevare gli altri” e life long learning, anche in sede di CdA, con appositi briefing da parte di esperti prima del momento deliberativo.

Chi ci parla è un presidente sempre con due fogli in mano, uno per appuntare quanto sentito e l’altro per annotare quanto imparato. Lo stesso che a 5 anni si vide affidare dal padre, in sua assenza, le cure di una mucca a Ventimiglia e che più di 75 anni dopo è ancora al timone di un gruppo con 5000 dipendenti. Il suo segreto? “Morality is longevity”.